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Novembre 2012
Cosa in un’opera d’arte suscita in me una meraviglia tale da ridurmi al silenzio? Cosa non può essere descritto a parole, comunicato, trasmesso, se non con la gioia degli occhi? Non la semplice emozione contenuta nell’opera. Non la bellezza oggettiva della realtà che in essa è ritratta. E neppure la perfezione di forme che dalla realtà si astraggono programmaticamente. Il silenzio di cui parlo è un silenzio vibrante, è la quiete della propria identità che cessa di riversarsi sull’opera per giudicarla o anche solo per cercare di spiegarla. È un silenzio in cui non ci si riconosce, ma con cui si riconquista un piano di sé dimenticato. È il silenzio di fronte alla scoperta che nell’opera è possibile esprimere l’oggettività del mondo su un piano di coscienza ulteriore. Ciò può voler dire intervenire pesantemente sul soggetto, sui suoi colori e sulle sue proporzioni, nel tentativo di restituirgli una nuova forma, mai irriconoscibile rispetto a quella di partenza, ma semmai libera da nessi logici ed emotivi che ingabbiano il senso profondo e occulto delle cose. Non mi interessa la capacità insita nella fotografia di mostrare il tempo fermo. Mi interessa invece stressare la sua oggettività strutturale per capire se è possibile ritrarre il mondo e contemporaneamente perdere tutti i legami con esso. Mi interessa trovare il modo di ingannare l’osservatore e farlo entrare senza che se ne accorga nel territorio dell’inconcepibile, del sogno lucido, liberarlo dall’angosciante onnipresenza della realtà così-com’è. Mi interessa trovare una via perché ciò accada senza che tutto crolli sotto le macerie di un giochino linguistico o di un’astrazione matematica. Scoprire quali siano i nessi da infrangere, gli elementi da non considerare più, quali invece siano i significati più profondi da conservare, come si esprimano al meglio, con quali colori e con quali contrasti, ha impegnato significativamente la mia ricerca nell’ultimo anno e mezzo. L’evidente cambiamento di rotta che ha portato da Toros de Lidia del 2009 agli Studi 2012 è il risultato imprescindibile di queste scoperte. Da un certo momento in poi l’idea di fotografia di strada com’ero abituata a concepirla si frantumata e da lì è nata l’esigenza di una nuova strada per affrontare la ricerca di una tecnica nuova, un metodo che mi consentisse di trovare l’anima nascosta di un’immagine per strapparla a quell’oggettività che negli anni mi ha così tanto esasperato.
Queste sono, a dire il vero, le battute iniziali della ricerca. Da queste prime opere raccolte sotto il nome di Studi 2012 parte ufficialmente un’indagine, con tutte le sue contraddizioni e le sue paure.