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Giugno 2013
Non ci sono atti creativi che contemporaneamente non siano anche politici.
Chi si avvicina a un mezzo espressivo non dovrebbe dimenticare che nel solo avvicinarsi esprime l’intento di agire creativamente. E per quanto da più parti si tenti di convincerci del contrario (e i risultati si vedono), agire creativamente non è un esercizio solipsistico-onanistico, che riguarda cioè solo se stessi e il cui frutto vada poi imposto al prossimo pretendendo la sua attenzione come un diritto. Non è neppure un agire finalizzato al comunicare questo o quel concetto, a meno che in un secondo momento non si decida in tal senso; la comunicazione sta su piano ben diverso e più ristretto rispetto a quello che tentiamo di approcciare in questa sede e di essa si occupano i pubblicitari, i giornalisti, i politici, i divulgatori di ogni sorta e i postini.
Agire creativamente significa innanzitutto concedersi la possibilità di essere liberi.
Quanti a questo punto asciugano una lacrima di commozione sentendosi perfettamente dentro alla questione dovrebbero convincersi del fatto che non stiamo recitando uno slogan, ma stiamo parlando di una cosa dannatamente difficile che, azzarderei quasi, si avvicina al senso di tutta una vita. Se tutti coloro che sognano di agire liberamente in fotografia si fermassero seriamente un attimo a riflettere su cosa questo comporti, capirebbero che il primo passo da fare sarebbe smettere di scattare, smettere di pubblicare, smettere di riprodurre compulsivamente foto già viste, foto comode, colori in voga, cliché vincenti ed emozioni da telegiornale; in poche parole dovrebbero smettere di prodigarsi a consolidare con tanto ardore e devozione la moda e tutto ciò che essa drammaticamente implica.
Sarebbe forse il caso di tornare a essere timidi.
Agire creativamente, in fotografia come in qualunque altro ambito espressivo, significa essere onesti fino al midollo, cercare l’impossibile, adorare l’inutile, avere costantemente “fame”. In fotografia più che in altri ambiti, e in questi anni più di prima, significa imparare a selezionare, a non mostrare, a buttare via. La deriva tecnologica che soffoca a dire il vero tutta la cultura con quell’insopportabile mito delle mille e una possibilità a portata di mano, ha rintronato tutti a tal punto che pare nessuno abbia più il fegato di prendere una posizione e darsi un limite, come se restringere il proprio campo d’azione fosse un’aperta ammissione di inettitudine. La verità è ben diversa. La verità è che delle mille e una possibilità che la tecnologia ci offre non sappiamo che farne nel momento in cui non sappiamo cosa significhi concedersi la possibilità di essere liberi.
Se sapessimo con sufficiente chiarezza qual è la nostra grande domanda sapremmo sfruttare i mezzi a nostra disposizione con l’abilità necessaria quantomeno a non esserne sopraffatti. Sapremmo ad esempio che piangere su un passato artigianale affibbiandogli contorni quasi mitici non basta a liberarci dal problema, e anzi ci rende ottusi; sapremmo capire quando il bianconero salva appena una nostra immagine dal cestino dell’immondizia e quando invece è la “pelle” della nostra fotografia; sapremmo che dieci scatti non sono dieci foto; sapremmo insomma che il nocciolo del problema è sempre lo stesso, ed è quel qualcosa di incomunicabile che non sta nello strumento ma nella consapevolezza di chi lo utilizza.
E come si fa a fare tutto questo? Come si fa a conoscere la propria grande domanda e ad agire creativamente? Mi sono già espressa su quello che secondo me è il primo inevitabile passo: smettere di agire se non si conosce la domanda. Darsi un freno quando la creatività non parte da un presupposto di assoluta onestà è l’unica arma contro quella catastrofica conseguenza che il nostro fare coatto ha sugli altri, ovvero la noia o, ancor peggio, l’assuefazione. Perché desidero ripeterlo: nessun atto creativo è senza conseguenze sui nostri simili e quindi se non sarà in grado di accenderne la vitalità, cosa che sarebbe auspicabile, potrà essere capace di fare il contrario.
Poi il secondo passo: guardare le opere altrui, conoscerne quante più possibile, capire da dove vengono, quando sono nate, in che contesto e quale problema affrontano. Bisogna lasciarsi ispirare dalle intuizioni e dai limiti di chi ci ha preceduto, bisogna amare chi si è dato senza condizioni e detestare chi ha tradito per trenta denari, bisogna permettere alle opere di stuzzicarci fino all’incendio, fino a che tutto ciò che resta di noi è piacere e passione senza limiti. Bisogna poi andare a fondo e capire quali dettagli, nei lavori che abbiamo amato, hanno compromesso a tal punto il nostro equilibrio da darci un nuovo slancio e perché l’hanno fatto, e infine portarceli via fino a che un numero imprecisato di dettagli rubati costruirà la nostra grande domanda.
Non nascondo di sentirmi un po’ in imbarazzo a dire che bisogna studiare, ma uno stuolo preoccupante di artisti visivi che non guardano, di scrittori che non leggono e di critici che non criticano mi fa pensare che non sia del tutto superfluo. Forse tendiamo a fare confusione tra istruzione e cultura. E in effetti sarebbe più corretto da parte mia dire che bisogna lasciarsi appassionare (e non solo da se stessi), cosa che attiene molto di più al farsi una cultura che non al farsi un’istruzione. Di certo fermarsi a smascherare uno ad uno gli inganni che gli innumerevoli cliché commerciali ci propinano insieme a propagande di un ogni tipo risulta indispensabile. Intraprendere questa via, solo apparentemente statica, può far sì che le nostre immagini stiano sulla schiena come un desiderio invincibile, un bisogno di appagamento che va oltre ogni comune senso della misura e della percezione di se stessi, e non come uno zaino carico di pietre. O peggio come certe proverbiali tegole che ti cascano addosso quando meno te lo aspetti.