<< back to News/Articles
THE FEELING OF WAR
If you stop at any time of the day, in the street or at home, while alone or in the midst of people, and say GUERRA(**), a dull burst can turn your mind off in a second, leaving you petrified. But already a moment later, body and mind will be fleeing, into the next street or TV political analysis, haunted by terror and the foreboding of pain and misery. If one says WAR, perhaps a sombre sound might rise in one’s ears instead, a dry hubbub accompanied by overlapping images of familiar films and anecdotes. Perhaps a slight gnawing in the stomach and an overlay of fears, memories and disturbing smells would also be added, but not paralysis, and therefore not escape.
This disorder is, I believe, the ideal state to be touched in the depths, and it is certainly the state I am trying to create in myself and in those who observe my latest work in this historical moment, poor in the most elementary sensibility, regressed and coarse, in which one can no longer distinguish a real emotion from a simulated one, in which one begs to be provoked and one ‘identifies’ with the other to the point of destruction.
If the distance from the desire to provoke, from fanatical polarisation in the style of Cancel Culture and from the most fashionable progressive themes has been a feature of my work from the outset, the novelty in War lies in the application of these instances to a theme clearly suggested by current events.
The starting push is fixed in the conviction that the whole of society today is mutilated in its finer psychic functions. The habit of the obscene vision of massacres and destruction irreparably undermines the relationship with others, with one’s own pain and above all with the ability to form an opinion and take a stand. An overwhelming sense of guilt and impotence in the face of inhuman events increases in many a generic resentment and a desire to escape by shutting oneself up in small concrete things, as if an excess of reality paradoxically became abstractness. Yet reality and the world must be taken care of.
For these reasons, and with even more conviction than in the past, I want neither to describe nor narrate, but to condense and distill. I have carefully selected the raw feelings, impulses and emotions to be dealt with in each piece, investigating the most intimate and minute ones, in the conviction that the deeper one goes, the more explanatory connections are left out, and the closer one gets to a psychic place that we all share, an issue that has always been very close to my heart.
And the psyche in relation to the feeling of war is precisely the work’s second field of investigation. If in fact Hot War focuses on the mundane and visible war, Cold War, specularly, shows fragments of the intimate universe of the individual, whose lacerations are imitations and models of the external fractures.
They are two worlds facing each other, the outer and inner landscape of the lonely and deformed individual facing the ruin, of which he is both actuator and victim.
In style, too, I aimed for a synthesis of forms. I tried to put together a deliberately anti-photographic minimalist visual alphabet, made up of primary and bright colours, solid backgrounds and graphic patterns, leaving behind the high definition of photography, which, however, remains the basic tool. All this always in an attempt to limit the conceptualisation of the images as much as possible, in order to favour, on the contrary, a more intuitive and low-key observation. The project will consist of ten works arranged according to the rectangular pattern 1-4-1-4, and will not be a symbolic path but a concrete and ordered puzzle of fragments of reality and psyche violently wrenched from integrity. If successful, it will spur everyone to read themselves in the world not as a separate entity positioned according to the logic of wealth and power but, recovering an ancient gaze, as a life interconnected with the others, whose ‘matter’ separates it from the rest only to a negligible extent.
(**) The language issue is central in the choice of titles for this work. It will be important that the main title and the titles of the individual pieces are translated from time to time into a different language than that of the audience.
WAR: IL SENTIMENTO DELLA GUERRA
Se ci si ferma in un momento qualunque della giornata, per strada o in casa, mentre si è soli o in mezzo alla gente, e si dice GUERRA, uno scoppio sordo può spegnere la mente in un secondo, lasciando pietrificati,. Ma già un attimo dopo corpo e mente saranno in fuga, nel vicolo a fianco o nelle analisi politiche della TV, assaliti dal terrore e dal presagio di dolore e miseria. Se si dice WAR, forse potrebbe alzarsi invece un suono cupo nelle orecchie, un vociare secco accompagnato da immagini sovrapposte di film e aneddoti familiari. Forse si aggiungerebbero anche una leggera morsa allo stomaco e un’amalgama di paure, ricordi e odori disturbanti, ma non la paralisi, e quindi non la fuga.
Questo disordine è, io credo, lo stato ideale per essere toccati nel profondo, e di certo è lo stato che tento di creare in me stessa e in chi osserva il mio ultimo lavoro in questo momento storico, povero della più elementare sensibilità, regredito e volgare, in cui non si sa più distinguere una emozione vera da una simulata, in cui si chiede di essere provocati e ci si “immedesima” nell’altro fino alla sua distruzione.
Se la distanza dalla volontà di provocare, dalla polarizzazione fanatica in stile Cancel Culture e dai temi progressisti più in voga è fin dall’inizio una cifra del mio lavoro, la novità in War sta nell’applicazione di queste istanze a un tema chiaramente suggerito dall’attualità.
La spinta iniziale è fissata nella convinzione che la società intera oggi sia mutilata nelle sue funzioni psichiche più fini. L’abitudine alla visione oscena di massacri e distruzioni pregiudica in maniera irrimediabile il rapporto con gli altri, con il proprio dolore e soprattutto con la capacità di farsi un’idea e prendere posizione. Un senso di colpa e di impotenza soverchianti di fronte a fatti disumani accresce in molti un generico astio e un desiderio di evadere chiudendosi nelle piccole cose concrete, come se un eccesso di realtà diventasse paradossalmente astrattezza. Eppure della realtà e del mondo bisogna prendersi cura.
Per questi motivi, e con ancora più convinzione che in passato, non voglio né descrivere né narrare, ma sintetizzare e distillare. Ho selezionato accuratamente i sentimenti, gli impulsi e le emozioni grezze da trattare in ogni pezzo, indagando quelli più intimi e minuti, nella convinzione che più si scende in profondità, più si tralasciano nessi esplicativi, e più ci si avvicina a un luogo psichico che accomuna tutti, questione che da sempre mi preme molto.
E la psiche in relazione al sentimento di guerra è proprio il secondo campo di indagine del lavoro. Se infatti Hot War si focalizza sulla guerra mondana e visibile, Cold War, specularmente, mostra frammenti dell’universo intimo del singolo, le cui lacerazioni sono imitazioni e modello delle fratture esterne. Sono due mondi che si fronteggiano, il paesaggio esteriore e interiore dell’individuo solo e deforme di fronte alla rovina, di cui è contemporaneamente attuatore e vittima.
Anche nello stile mi sono orientata alla sintesi delle forme. Ho tentato di mettere insieme un alfabeto visivo minimalista volutamente anti fotografico, fatto di colori primari e accesi, campiture piene e pattern grafici, lasciando alle spalle l’alta definizione della fotografia che, comunque, resta lo strumento di base. Tutto questo sempre nel tentativo di limitare il più possibile la concettualizzazione delle immagini, per favorire, al contrario, un’osservazione più intuitiva e a guardia bassa. Il progetto sarà composto da dieci opere disposte secondo lo schema rettangolare 1-4-1-4, e non sarà un percorso simbolico ma un puzzle concreto e ordinato di frammenti di realtà e di psiche violentemente strappati all’integrità. Se sarà riuscito, spronerà ciascuno a leggere se stesso nel mondo non come ente separato e posizionato secondo logiche di ricchezza e potere ma, recuperando uno sguardo antico, come una vita interconnessa alle altre, la cui “materia” lo separa dal resto solo in misura trascurabile.
*
*